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Barba e capelli al profeta Marx di Stefano d’Errico([1])

6 Giugno 2020

Denunciando che la catastrofe del cosiddetto socialismo reale era strutturale e non “episodica”, con il famoso saggio su Proudhon del 1978 Luciano Pellicani chiamava in causa il socialismo libertario, già bollato da Marx come utopistico. Eugenio Scalfari trattò la svolta del Psi come un’abiura e scrisse:

La posizione di Craxi politicamente significa questo: 1) l’unità della sinistra in Italia è rotta per sempre; 2) senza bisogno di congressi e di comitati centrali, con un semplice tratto di penna, il segretario del Psi ha cancellato cent’anni di storia del suo partito, ha rivoluzionato la topografia degli schieramenti politici italiani e ha di fatto fondato un grande partito liberal-socialista.

Per il fondatore de “la Repubblica” non c’era socialismo possibile fuori dal Marx politico. La storia (dall’89) s’è incaricata di fare giustizia: Pellicani indicava la strada per rimanere nel solco del socialismo, il fondatore de “la Repubblica” agiva come se Giustizia e Libertà, Partito d’Azione, Partito Radicale e Socialdemocrazia non fossero mai esistiti. Eppure Scalfari rivendica origini “liberal-socialiste”, ribadite anche il 26 Aprile 2020: “Repubblica è nata nel 1976, siamo nel 2020 ma il nostro spirito, la nostra anima giornalistica non può cambiare: si può definire liberal-socialista (..) Se la proprietà non riconosce più questi valori vuol dire che il giornale non c’è più” (sic!). Una contraddizione permanente.

Ma cosa aveva mai scritto Pellicani? Semplice:

 da Russell a Carlo Rosselli a Cole ci perviene un unico stimolo che ci invita a non confondere il socialismo con il comunismo, la piena libertà estesa a tutti gli uomini con la cosiddetta libertà collettiva, il superamento storico del liberalismo con la sua distruzione.

Ovvero che fra socialismo democratico e comunismo marxista-leninista c’è una “incompatibilità sostanziale”, perché:

Rispetto alla ortodossia comunista il socialismo è democratico, laico e pluralista. Leninismo e pluralismo sono termini antitetici; se prevale il primo, muore il secondo.

 Pellicani chiamò in causa Proudhon perché secondo la concezione mutualista la (piccola) proprietà era legata alle libertà personali, che non dovevano mai venire messe in discussione. Quel Proudhon, scontratosi duramente con Marx che contro di lui aveva scritto Miseria della filosofia, definendolo un “piccolo borghese”. Pellicani aveva studiato la genesi del capitalismo, rifiutando sia le tesi di Marx che quelle di Weber, però non fu mai un liberista, e neppure Proudhon, collettivista, per il quale contava soprattutto la capacità politica([2]) dei lavoratori: una democrazia diretta senza orizzonte economico ingessato e direttive dittatoriali di partito.

Anche un intellettuale anarchico del Ventesimo Secolo, Camillo Berneri, assegnava al collettivismo funzione di contrasto nei confronti del comunismo (peraltro criticato da Bakunin contestualmente alla formulazione di Marx). Il comunismo doveva valere come esempio mai imposto. In un intervento dal titolo incontrovertibile, Il liberismo nell’Internazionale([3]), Berneri scrisse la famosa frase “Noi fummo i liberali del socialismo”. Nulla a che fare col “tanto peggio – tanto meglio” (al quale bisogna sostituire il detto: “meglio il male attuale che uno peggiore”)([4]): pratica e difesa dei diritti civili innanzitutto! Berneri fu “romantico col cuore e realista col cervello”, duttile in economia: “sul terreno economico gli anarchici sono possibilisti (..) sul terreno politico (..) sono intransigenti al 100%”([5])

Così Giampietro Berti, che conosce bene Berneri:

Un anarchismo che sia insieme “idealista e realista” sta dunque alla base della metodologia revisionistica di Berneri per quanto riguarda il problema della transizione. È tenendo conto di tale ambivalenza che è possibile capire a questo punto il progetto berneriano fondato fin dal 1921 su un programma minimo, che con il tempo verrà delineandosi in un’eclettica sintesi di sovietismo, federalismo, comunalismo. Ciò che Berneri intende con questa triplice articolazione è un anarchismo “attualista”, vale a dire un farsi dall’anarchia “nelle sue approssimazioni progressive” attraverso “opposizione e sintesi”, un “compromesso tra l’Idea e il fatto, tra il domani e l’oggi”, secondo una traccia che vede nelle “deviazioni stesse (..) la ricerca di una rotta migliore”([6]).

Questo gradualismo, anche nella eventuale fase rivoluzionaria, è l’unica alternativa al totalitarismo, nonché ad una certa “vulgata” folkloristica antianarchica (indifferentismo ed individualismo senza confini, violentismo, rigetto dell’etica della responsabilità e della politica).

Ma gli anarchici, pur possedendo strumenti strategici per la critica della statolatria dittatoriale comunista, difficilmente avevano tentato un’analisi di classe del bolscevismo. I più s’accontentarono di stigmatizzare il regime per la repressione contro i marinai di Kronstadt, gli operai di Pietroburgo o i contadini ucraini e le purghe della Ceka. Difficilmente si mosse guerra al marxismo denunciando l’inedita forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo che andava affermandosi nella cosiddetta “Repubblica dei Soviet”. Berneri dimostrò invece che il “re” era nudo, non solo perché liberticida, ma soprattutto per una nuova forma di dominio costruita ad uso e consumo di una nuova classe. Una classe che usava gli stessi strumenti dell’antico regime, il militarismo, le persecuzioni poliziesche, la negazione del diritto di sciopero, l’assenza di libertà di espressione e di pluralismo politico, ma che, prima di tutto, erodeva privilegi, potere e benessere economico proprio a danno di quel proletariato e di quel popolo che l’aveva portata al potere con una rivoluzione che prometteva l’egualitarismo!

Era questa la strada maestra per far cadere il giustificazionismo di matrice idealistica che copriva tutte le malefatte, la burocrazia e le asprezze del regime adducendo la scusa di motivi “contingenti”: unicamente la denuncia pubblica della truffa incardinata sul potere di una nuova classe poteva abbattere i miti “unitari” sui quali si basava la politica “frontista” del Komintern. Purtroppo all’epoca il proletariato mondiale era anche disposto a sacrificare la libertà sull’altare di una presunta giustizia sociale. Una “libertà” peraltro mai conosciuta e solo sentita nominare, concetto “fumoso”. Molto più “pratici” e tangibili erano i morsi della fame e le palesi ingiustizie sociali ed era perché questi fenomeni sparissero che le masse avevano fatto la rivoluzione.

Sotto il piano politico, andava spiegata con chiarezza l’origine giacobina dei totalitarismi, il legame direttamente conseguente fra marxismo, leninismo e stalinismo, senza infingimenti luxemburghiani, “consigliaristici” o d’altro tipo. Un’assenza di critica che, ad esempio, i trotskisti hanno pagato sino al 1989, spazzati via perché quella denuncia non potevano farla. E non solo in quanto a lungo direttamente corresponsabili della politica sovietica bensì, una volta diventati avversari di Mosca, perché costretti a negare dottrinariamente l’esistenza del capitalismo di stato. Ecco una delle denunce che Berneri pagò con la vita! Questo è il punto centrale della questione, ancora oggi difficilmente compreso: nonostante l’esempio del crollo dell’Urss, con la trasposizione automatica dal socialismo “surreale” al neo-liberismo della catena di comando delle imprese che non furono mai davvero “pubbliche”; nonostante la Cina stia a dimostrare la pervicacia del capitalismo di stato.

In quanto a Marx, una cosa è l’analisi sull’estrazione del plus valore, altra è la totale disattenzione rispetto alla cosiddetta sovrastruttura (cultura ed educazione), o con riferimento allo stato (per di più totalitario) ed alle dinamiche di classe che esso induce. Rilievo deve avere la “fotografia” dell’economia capitalistica, ben altra considerazione la caduta in un determinismo che ha portato il marxismo ad una deriva industrialistico-millenarista in odor di metafisica.

Lo stesso economicismo di Marx è una variante del suo politicismo. Un approccio “centralista” in tutti i sensi. L’autonomia della politica, alla quale si subordina l’etica; la centralità dell’economia, alla quale si subordinano la politica ed il progetto d’emancipazione relegando tutto il resto a mera “sovrastruttura”; il centralismo nell’organizzazione rivoluzionaria, subordinata alla disciplinata obbedienza al gruppo dirigente; il centralismo classista operaiolatra che prefigura l’ineluttabilità di una rivoluzione legata indissolubilmente allo sviluppo industriale (crisi ecologica e saccheggio delle risorse non rinnovabili comprese); l’etnocentrismo (la rivoluzione preconizzata nel primo mondo) e l’antropocentrismo che ne derivano a scapito di una valorizzazione delle differenze culturali presenti sul pianeta e a danno dell’ecosistema; il centralismo statuale incarnato nel regime dittatoriale come paradossale veicolo di libertà ed emancipazione, antitetico al federalismo e scatenante una tragica dicotomia con il prevalere di industria e città su campagna e periferia.

Non possiamo oggi sapere se Berneri, ucciso non ancora quarantenne, fosse o meno in procinto di elaborare un’analisi sull’appropriazione nel capitalismo di stato che facesse risaltare come la “teoria del profitto” vada magari modificata perché è da incardinarsi sulla questione dell’autorità e sulla gestione della proprietà “collettiva” – che diviene individuale e di classe, per il tramite dell’apparato di partito che domina lo stato – dei mezzi di produzione. Ma di certo il feticcio statolatra contraddistingue ed unifica tutti i totalitarismi.

Proprio per la natura del marxismo politico Berneri, fresco degli studi con Gaetano Salvemini, arrivò a definire una cesura netta anche in materia di alleanze, stabilendo le linee di un’unità d’azione strategica con il liberal-socialismo, l’unico all’epoca capace di fornire garanzie contro ogni aspirazione totalitaria, prima intervenendo su “La Rivoluzione liberale” di Piero Gobetti e poi tessendo un rapporto formidabile con Carlo Rosselli tramite la frequentazione diretta ed una fitta dialettica su “Giustizia e Libertà”([7]). Infine con l’impegno comune nell’organizzazione e nel comando della colonna italiana anarchica e giellina operante in Spagna durante la guerra civile, inquadrata nelle milizie anarcosindacaliste della Cnt.

“L’anarchia è religione”,([8]) l’anarchismo è politica, caratterizzata dalla negazione dello stato (che certo non “deperisce” da solo) e dal fatto che senza libertà non può esistere equità perché più totalitario è il sistema, più diseguale sarà. Questa è la “riserva teorica” di Berneri, anche se per lui il sistema libertario “non è semplicemente il non-Stato bensì un sistema politico a-statale, ossia un insieme di autonomie federate”([9]), ovvero: “Cattaneo completato da Salvemini e dal Sovietismo”([10]), correzione del federalismo politico-territoriale in federalismo sociale.

Ho conosciuto Luciano Pellicani proprio in occasione della presentazione del mio primo libro su Camillo Berneri, Anarchismo e politica, nel 2008, alla quale (come in seguito) mi fece l’onore di intervenire. Nel testo avevo messo in risalto l’intuizione di Berneri sulla tecnoburocrazia (intesa come nuova classe), precedente all’analisi di Bruno Rizzi([11]), pubblicata nel 1939, ed il coraggio di farne strumento di lotta politica all’inizio degli anni ’30. Ed è certo emblematica di una sudditanza psicologica e politica al bolscevismo arrembante l’assenza di altri esempi di critica radicale sul terreno dell’analisi di classe, del sistema teorico e delle realizzazioni pratiche del “comunismo” autoritario preconizzato dal filosofo di Treviri e posto in essere da Lenin e da tutti i suoi epigoni. Come il fondamentale lavoro di Berti ed altri su “I nuovi padroni” dimostra, questo è un contributo essenziale dell’anarchismo, che molto correttamente il socialista Pellicani aveva ricordato già nel 1977:

Ma sono stati gli anarchici i primi ad individuare e stigmatizzare la natura classista e burocratica del comunismo marxista([12]).

Pellicani richiama peraltro un ulteriore, importante, elemento di contraddizione:

Per la verità a un certo punto delle sue analisi macrostoriche lo stesso Marx aveva intravisto che il monopolio statale dei mezzi di produzione rappresentava la base materiale del dispotismo orientale. Il 2 giugno 1853 scrisse ad Engels che “la ragione fondamentale di tutti i fenomeni dell’oriente (..) stava nel fatto che vi mancava la proprietà privata del suolo”. E successivamente, approfondendo lo studio delle società orientali, giunse a individuare e concettualizzare uno specifico modo di produzione asiatico caratterizzato dalla presenza di uno stato fortemente centralizzato che avvolgeva nelle spire della sua burocrazia l’intera società civile. Nei Grundrisse caratterizzò esplicitamente la società asiatica in base alla presenza di un unico proprietario collettivo della terra che sovrastava le piccole comunità e le dominava dispoticamente([13]). Il che equivaleva a riconoscere che il potere statuale in quanto tale era una causa determinante della struttura di classe e che coloro che controllavano l’apparato burocratico costituivano una classe diversa dalla massa dei semplici cittadini. Sennonché una tale conclusione “disturbava” la coerenza interna del sistema teorico costruito da Marx e confermava puntualmente la posizione di Bakunin sul problema dello stato([14]).

Aggiungendo in nota:

La devastante critica della concezione marxiana del potere sviluppata da Bakunin si basa essenzialmente su una tesi di evidenza solare, ma che i dottrinari, obnubilati dall’abitudine di sgranare il rosario dell’ortodossia, non sono in grado di percepire: che in quasi tutte le società a noi note è stato il potere politico-militare, e non già quello economico, il grande generatore delle classi e dello sfruttamento([15])([16]).

E conclude:

Inoltre faceva franare come un castello di sabbia la strategia della edificazione della società socialista delineata nel Manifesto e sintetizzata nella formula “accentramento di tutti i mezzi di produzione nelle mani dello stato”. Così la passione rivoluzionaria di Marx entrò in conflitto con la sua passione scientifica. Purtroppo prevalse il pathos messianico del totalmente altro sulla razionalità illuministica e Marx commise quello che Karl Wittfogel ha chiamato “il peccato contro la scienza”: soppresse la categoria storico-sociologica del modo di produzione asiatico e continuò a predicare che con la concentrazione di tutti i mezzi di produzione nelle mani dello stato la società occidentale avrebbe compiuto un enorme passo avanti verso una superiore forma di libertà([17]).

Come Pellicani stesso segnala, fu Francesco Saverio Merlino (altra grande personalità dell’anarchismo italiano), ben prima della rivoluzione russa, a scrivere che: “il comunismo (..) non sarebbe stato altro che lo statu quo, toltone il capitalista e aggiuntavi la burocrazia”([18]). Merlino però era ormai uscito dall’anarchismo, in polemica con Malatesta sulla questione elettorale (1897), un altro dei “tabù” contro i quali s’è poi scagliato Berneri.

Berneri veniva dal Partito Socialista, al quale aveva aderito a quindici anni, ricoprendo presto il posto di segretario della Fgsi nella città di Prampolini, che lo volle anche collaboratore dell’ “Avanti!”. Ed è proprio a partire dalla gestione della controversia che lo fece aderire al Movimento Anarchico che si ricava un’altra lezione. A testimonianza di un clima di grande correttezza che, a dispetto di tutto, pur dopo la rottura, avvenuta sulla posizione del “non aderire e non sabotare” tenuta dal Psi all’insorgere della prima guerra mondiale, assicurò ugualmente rispetto e stima reciproci – nonché dell’alto senso democratico che pervadeva la Federazione Socialista di Reggio Emilia – sarà utile riportare le considerazioni di Berneri:

Poiché vi era la consuetudine di leggere all’assemblea le lettere di dimissioni pensai di farne una che servisse alla propaganda. La spedii un venerdì, e la sera di poi mentre passeggiavo sotto i portici della Via Emilia i socialisti del circolo mi richiamarono che era l’ora della riunione (ci riunivamo ogni sabato). Io dissi fra me e me: Non hanno ricevuto le mie dimissioni. E risposi loro, non senza un po’ di batticuore: “Ma non avete avuta la mia lettera?”. “Si”, mi risposero, “l’abbiamo avuta, ma vieni lo stesso”. Allora andai. Ed ebbi una delle più vive emozioni della mia vita: quella di essere chiamato a presiedere l’ultima riunione alla quale partecipavo. Fu un gesto di simpatia del quale soltanto più tardi vidi l’enorme valore di educazione politica. Allora vidi in esso la prova che mi volevano bene e il distaccarmi da essi mi gonfiava il cuore di commozione([19]).

L’atteggiamento di Prampolini fu nobilissimo: “‘Dunque, ci lasci’ egli disse al dimissionario, con tristezza; e dopo una pausa, soggiunse: ‘Ma resta sempre nel socialismo’”([20]). Parlando della pratica insana di demonizzare l’avversario, “sdoganata” in primis da una certa sinistra, proprio Berneri scrisse: “Oggi è costume ridere della retorica fascista. Ma siamo delle scimmie che ridono davanti ad uno specchio”([21]).

Infine, sarà proprio la morte di Berneri, sequestrato e ucciso dai comunisti nella Barcellona rivoluzionaria del 1937 paradossalmente dopo aver letto a Radio Barcellona l’elogio funebre in memoria di Antonio Gramsci e scritto un appello contro gli scontri fratricidi fra antifascisti durante le giornate del Maggio ’37, a confermare la “differenza di passo” nei rapporti fra anarchici, liberal-socialisti e socialisti e fra anarchici e comunisti. A fugare ogni possibilità di “equivoco” sull’omicidio mirato aveva subito provveduto lo stesso Togliatti. “Il grido del Popolo”, organo ufficiale del “Fronte Unico” controllato dai comunisti (italiani), proprio polemizzando con giellini e socialisti che avevano immediatamente commemorato la figura di Berneri – dopo aver cinicamente deplorato persino le “tradizioni di un passato prefascista, quando gli avversari politici potevano essere nello stesso tempo amici personali” – il 20 maggio 1937 scrisse: “Camillo Berneri (..) è stato giustiziato dalla Rivoluzione democratica, a cui nessun antifascista può negare il diritto di legittima difesa”([22]).

Pellicani, brillante intellettuale socialista, politologo, sociologo, docente universitario, con la “svolta Proudhon” segnò un’epoca. La reazione degli avversari diede inizio all’ennesimo scontro senza quartiere:

Un manifesto ideologico, come nell’Ottocento. Curioso che a intestarsi la battaglia delle idee fosse un leader pragmatico, per nulla attratto dalle fumisterie teoriche, considerato spregiudicato e privo di scrupoli: Bettino l’Amerikano, il tedesco del Psi, come lo appellavano gli avversari. (..) In linea con il giudizio dello storico Paolo Spriano: “Toni e espedienti idonei all’addestramento dei commandos delle teste di cuoio ma non al dibattito culturale”. Ancora più brutale il vicecapogruppo del Pci alla Camera Fernando Di Giulio: “Perché Craxi ha scelto Proudhon, questo strano modesto pensatore francese? Secondo alcuni, perché ricorda una marca di champagne”.

Così Marco Damilano, su “L’Espresso” (parente stretto de “la Repubblica”) del 30.8.2018.

Memori di ciò che è successo alla sinistra, noi saremo più precisi. Il tentativo di mantenersi agganciati alla grande tradizione del socialismo umanitario, dopo la bancarotta del marxismo (politico e non solo) non era affatto peregrina, semmai puntualissima nel precedere la crisi definitiva di quel modello. Oggi, chiunque abbia ancora un minimo di senso politico, a fronte di decenni nei quali non è venuto alla luce neppure lo ius soli (mentre restano intonsi i “pacchetti sicurezza” di Salvini), sa bene quanto servirebbe al Paese la rinascita di un autentico riformismo socialista (per il Movimento libertario uno sparring partner fondamentale).

Certo, si dirà che quello di Craxi non era il nostro socialismo, non il socialismo libertario, però neppure la brutta copia affatto socialdemocratica, in verità turbo-liberista spinta, degli eredi “post-moderni” del Pci: D’Alema, Bersani, Renzi, Zingaretti (passando per Bertinotti), piuttosto proni al sistema Ue ed Usa e pronti alla svendita del Paese, avvenuta infatti negli ultimi 30 anni. Costoro hanno invece imboccato la strada inversa, di fatto uscendo da quella tradizione e facendo dell’Italia un’anomalia geopolitica, che si vorrebbe priva di cittadinanza per socialismo, liberal-socialismo, ipotesi libertaria e (persino) liberale (non necessariamente liberista): il liberalismo di Gobetti, per Berneri compatibile per un’alleanza con l’anarchismo perché “richiama a Pareto, a Einaudi, ecc., ben più che ai liberali inglesi”([23]). Per non parlare degli attuali soci di governo dei piddini (nulla a che fare con la sinistra storica), nonché del restante cascame della politica da operetta: “berluscones”, tardo-fascisti, leghisti e neo-leghisti. A tutti costoro, sentendo pronunciare il nome di “Proudhon”, oggi non s’appalesa davvero altro che una sottomarca di champagne. Ed ecco servita la nemesi. Con buona pace (anche) di Eugenio Scalfari.

[1] Autore di: Anarchismo e politica. Nel problemismo e nella critica all’anarchismo del Ventesimo Secolo, il “programma minimo” dei libertari del Terzo Millennio. Rilettura antologica e biografica di Camillo Berneri, Mimesis Edizioni, Milano 2007; Il socialismo libertario ed umanista oggi fra politica ed antipolitica. Attualità della revisione berneriana del pensiero anarchico, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011; e La Scuola distrutta. Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica e del Paese, Mimesis Edizioni, Milano 2019.

[2] P. J. Proudhon, La capacità politica delle classi operaie, Editrice Il “Solco”, Città di Castello 1921.

[3] C. Berneri, Il liberismo nell’Internazionale, da “Rivoluzione liberale”, Torino 24.4.1923, in Pier Carlo Masini, Alberto Sorti, Pietrogrado 1917 Barcellona 1937. Scritti scelti di Camillo Berneri, Editrice Sugar, Varese 1964, oggi in S. d’Errico, Anarchismo e politica, cit.

[4] C. Berneri, Per finire, su Compiti nuovi dell’anarchismo, da “L’impulso”, Livorno 1955, già apparso insieme ad interventi di altri sotto il titolo comune Revisionismo elettorale nell’anarchismo, su “L’Adunata dei Refrattari”, New York 27.6.1936, poi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano 2001.

[5] C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, manoscritto del 1926 rimasto inedito sino al 1964. Oggi in S. d’Errico, Anarchismo e politica, cit.

[6] Giampietro Berti, Il problema del revisionismo: Camillo Berneri, in Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Ed. Lacaita, Manduria 1998.

[7] Si veda in proposito, ad esempio: C. Berneri, Gli anarchici e G. L., in “Giustizia e Libertà”, Parigi 6.12.1935.

[8] C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, inedito incompiuto del 1926, conservato presso Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia, pubblicato per la prima volta da Pietro Adamo, Anarchia e società aperta, cit.

[9] C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, da “L’Adunata dei Refrattari”, N.Y. 4.4.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, cit.

[10] C. Berneri, Lettera a Libero Battistelli, Versailles 7.12.1929, copia dattiloscritta da una spia fascista, Archivio Centrale dello Stato, riprodotta in Camillo Berneri. Epistolario inedito, Vol. I, a cura di Aurelio Chessa e Pier Carlo Masini, Archivio Famiglia Berneri Edizioni, Pistoia 1980.

[11] Bruno Rizzi, La bureaucratisation du Monde, Francia 1939. Oggi vd. Bruno Rizzi, Il collettivismo burocratico, Sugar Editrice, Milano 1977. Rizzi aveva pubblicato nel 1937 anche il libro: Dove va l’URSS?, Ed. La Prora, Milano 1937.

[12] Luciano Pellicani, Introduzione a B. Rizzi, Il collettivismo burocratico, Sugar Editrice, Milano 1977, nota 2, p. 12.

[13] Segnala Pellicani: “K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1970, vol. II, pp. 97-98”.

[14] Luciano Pellicani, Introduzione a B. Rizzi, Il collettivismo burocratico, cit., p. 18.

[15] Cfr. L. Pellicani, The “Red Bureaucracy, in “Freedom”, 1976, n. 25.

[16] Luciano Pellicani, Introduzione a B. Rizzi, Il collettivismo burocratico, cit., nota 12, p. 18.

[17] Ibid., pp. 18-19.

[18] Francesco Saverio Merlino, Il socialismo senza Marx, con scritti del 1897, Massimiliano Boni Editore, Bologna 1974, p. 219.

[19] Commento di Berneri a ricordo della Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico, con lo pseudonimo di “Camillo da Lodi”, scritta a Reggio Emilia nel 1915 e pubblicata nel 1916, fra luglio e agosto, sul giornale pisano “L’Avvenire Anarchico”. La lettera verrà poi ripresa (parzialmente) in Pensieri e battaglie, Edito a cura del Comitato Camillo Berneri, Parigi 5.5.1938. Oggi in Francisco Madrid Santos, Camillo Berneri. Un anarchico italiano (1897-1937). Rivoluzione e controrivoluzione in Europa (1917-1937), Edizioni dell’Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1985, p. 535.

[20] Citato dalla madre, Adalgisa Fochi, In difesa di Camillo Berneri, Cooperativa Industrie Grafiche, Forlì 1951, p. 16.

[21] C. Berneri (a cura di Pier Carlo Masini), Mussolini grande attore, Ed. dell’Archivio Famiglia Berneri, Comune di Pistoia, 1983.

[22] [P. Togliatti] Bisogna scegliere, in “Il Grido del Popolo”, Parigi 20.5.1937. Su “Rinascita” del Marzo 1950, incalzato da Salvemini, Togliatti cambiò linea, tessendo le lodi di Berneri e dando la colpa della sua morte ad una pallottola vagante (come se non fosse stato arrestato dalla polizia controllata dal Psuc).

[23] C. Berneri, Il mio nazional-anarchismo, manoscritto inedito conservato presso Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia, cassetta IV – opere di carattere politico, citato da P. C. Masini, in La formazione intellettuale di Camillo Berneri, pubblicato in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri. Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979. Il manoscritto non è datato, ma per le citazioni che vi appaiono risulta sicuramente successivo a C. Berneri, Costituzione della Federazione Italiana Comuni Socialisti (FICS), probabilmente elaborata nel corso del Convegno d’Intesa degli anarchici italiani emigrati in Europa o a margine dello stesso, Parigi, ottobre/novembre 1935. Testo indubitabilmente successivo alla Riforma Gentile (divenuta legge nel 1923).

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